Era una mattina d’inizio autunno, una mattina uguale a tutte le altre nel ridente paese di Tataranni Costruzioni (ma leggermente diversa dalle mattine di fine estate e nettamente migliore di quelle del pieno inverno, forse più simile a certi pomeriggi di mezza primavera, con un po’ di brezza in più rispetto alle afose notti estive).
Il gallo di zia Elvira cantava nel pollaio, Beppo il giornalaio sistemava le riviste sugli scaffali, Zelda la matta si faceva la toeletta, il bovaro si preparava a far nascere un agnellino, compare Antonio alzava la saracinesca della sua cartoleria-tabaccheria (facciamo che gli altri 195 abitanti stavano ancora dormendo) e Pamelo fissava alternativamente la valigia pronta di fronte alla porta e il latte che si stava freddando nella tazza. Per lui non era una mattina come le altre perché alle cinque del pomeriggio il trenino della calabro-lucana l’avrebbe portato ad Eboli, e da lì un treno nazionale l’avrebbe finalmente condotto alla sua nuova vita nella capitale. Aveva atteso con ansia quel giorno, ma ora che era giunto provava una inesplicabile malinconia e cominciava a vedere per la prima volta la bellezza della sua terra natia.
Pamelo decise di dire addio alle strade del suo paese, ai boschi e ai calanchi con una passeggiata. Passò davanti al cortile della scuola e al campo di calcetto parrocchiale e si concesse una dolce pausa commemorativa nella piazzetta dove aveva architettato vite irrealizzabili con i suoi amici e baciato una ragazza per la prima volta. Si incamminò infine per un sentiero nel bosco, godendo del crepitio delle foglie secche sotto i suoi passi, e dell’odore umido e dolciastro dei funghi nati dalle prime piogge autunnali, mischiato a quello acre del fumo degli ultimi incendi dolosi estivi. Respirò a pieni polmoni, sentendo di avere il viso bagnato dalle lacrime, forse per il fumo, forse per la nostalgia, e sedette a guardare il paesaggio. A nord, i dorsi arcigni delle montagne serravano la stretta valle e il torrentello strozzato che l’attraversava, mentre verso ovest si distendevano le colline con i campi di grano e i boschetti di ulivi e alberi da frutta. Nel fondo del fosso ai suoi piedi, cinti da cespugli di more e ortiche stavano due sacchi plastica nera maleodoranti, quattro scatoloni di vecchie piastrelle da cucina, un frigorifero e una lavatrice, e su un tavolo operatorio giacevano un ombrello e una macchina da cucire, in una felice congiunzione artistica fra concretismo e surrealismo. Ah, pensò Pamelo, quanto mi mancherà tutto questo! Quanto mi piacerebbe restare a vivere qui, nei boschi, in mezzo a questa meravigliosa natura!
Espresse quest’ultimo desiderio ad alta voce, pensando di essere solo. Lo sportello del frigorifero in fondo al fosso si aprì di scatto e ne uscì un ometto con le orecchie a punta, vestito di verde e con un gran ciuffo di capelli corvini a forma di cappello. Sembrava proprio un elfimero.
Pamelo sobbalzò e disse: “Oddio! Tu sembri proprio un elfimero!”
“Lo sono, giovine!” replicò l’ometto saltellando su per il fosso “E ho udito il tuo desiderio. Puffinbocca al tuo servizio!”.
Pamelo provò una istintiva fiducia verso quella creatura che aveva un nome più buffo del suo e gli aprì il suo cuore. Gli raccontò di quanto aveva desiderato vivere delle avventure e di quanto odiasse la scuola, e che non aveva nessun desiderio di passare altri cinque anni sui libri in una uggiosa città. Gli sarebbe piaciuto fare il pirata, l’elfo (questo lo disse più che altro per ingraziarselo) o al massimo il contadino, ma suo padre voleva che diventasse un medico o un avvocato, o almeno un ingegnere informatico.
L’elfimero a sua volta gli confidò di quanto trovasse noiosa la vita nei boschi, con quelle interminabili assemblee degli animali in cui non si riusciva mai a decidere nulla e la complicatissima etichetta che si era costretti ad osservare alle cerimonie delle fate.
“Ehi! Ho un’idea!” disse infine Puffinbocca, fingendo che l’illuminazione gli fosse venuta proprio in quel momento “Facciamo uno scambio. Io prenderò le tue sembianze e farò l’università in quella uggiosa e trafficata città… come hai detto che si chiama? Roma? Frequenterò i corsi, darò gli esami e sgobberò al tuo posto. Tu prenderai le mie e vivrai le tue avventure nei boschi, fra feste fatate e bevute di rugiada. Fra cinque anni ci incontreremo in questo stesso posto e torneremo al nostro aspetto originario. Cosa ne dici? Affare fatto?”
“Figo!” esclamò Pamelo “Ci sto. Ci sto di brutto! Facciamolo subito!”
L’elfimerò sogghignò e, prima che una foglia appena morta si ricongiungesse alle sorelle sul terreno, prese l’aspetto del giovane Pamelo, che a sua volta si trasformò in un ometto col ciuffo a forma di cappello.
Intanto dal sentiero veniva un rumore di passi leggeri e di zoccoli di cinghiale.
“Addio, giovine! Divertiti e non bere troppa rugiada, mi raccomando!” disse Puffinbocca allontanandosi velocemente.
“Aspetta! Dove vai? Non so neanche dove abiti qui nel bosco”
“Non ti preoccupare, rilassati, eh? Fammi andare che perdo il treno.”
Lo scalpiccio era sempre più forte e vicino.
“Ma… è appena mezzogiorno” protestò Pamelo, vedendo che il sole era ancora a allo zenit e rendendosi conto che l’elfimero gli aveva fregato anche l’orologio. “Il treno ce l’hai alle cinque”
“Appunto, è ora di pranzo e tuo padre si preoccuperà se non mi vede arrivare. Ci si vede. Adios”.
Pamelo vide scomparire se stesso in fondo al sentiero e sospirò, pensando alla rapidità con cui aveva affidato il suo corpo e il suo futuro ad uno sconosciuto. Ok, ma chi se ne frega del futuro! Aveva davanti a sé cinque anni di pacchia: feste, giochi, ozio, fate avvenenti! E quel ciuffo a forma di cappello gli stava da dio.
“Su le mani, Puffinbocca, sei in arresto” disse una voce stridula alle sue spalle.
Pamelo fece per voltarsi ma un’altra voce gli intimò di fermarsi.
“Ladro e traditore, cercavi di scappare, eh?”
Con la coda dell’occhio il ragazzo vide un gruppo di elfimeri a dorso di cinghiale, armati di picche e bastoni. Una fata poliziotto che portava quadri e cuori, dopo averlo atterrato con una mossa di karate, gli mise le manette.
“Ehi, aspettate, io non sono quello che credete… sono una ragazzo, vengo dal paese e mi chiamo Pamelo. Stavo per andare all’università, ma un elfimero mi ha proposto uno scambio e io ho accettato… ahia! Mi fai male! Lasciatemi andare, ho il treno alle cinque!”
“Sì, sì, lo racconterai al giudice” disse la fata. Lo strattonò e aggiunge malignamente “Con questa bravata ti sei beccato un altro anno di lavori forzati”
“Un anno! Un anno intero… ma io non posso… quanti anni erano?”
“Cinque anni” disse l’elfimero con la voce stridula. “Hai cinque anni di lavori forzati da scontare”.