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giovedì 11 ottobre 2007

Radiohead - In Rainbows. Parte II. RH Arp



Ma ora veniamo al disco. Il mio timore era proprio questo: In Rainbows resterà nella storia del marketing e dell’economia, ma avrà un posto anche nella storia della musica? Certo, i Radiohead in quanto band il posto già ce l’anno con i capolavori Ok Computer e Kid A/Amnesiac. Tuttavia, dall’ascolto delle registrazioni live che circolavano da un paio d’anni delle 9 tracce dell’album, non mi aspettavo grandi rivelazioni. Infatti In Rainbows non è una rivelazione (poteva esserlo se fosse stato il loro primo o secondo album…). Semmai è una conferma.
Ad un primo ascolto si rivela subito come un album compatto e coerente (come lo era Kid A, cui si avvicina anche per brevità: poco più di 40 minuti). Infatti, chi ha ascoltato solo le registrazioni live delle varie Arpeggi, Reckoner, 15 step, se le dimentichi: tutte splendide canzoni, ma acquistano un quid in più solo come pezzi dell’album, che va ascoltato rigorosamente per intero.
I Radiohead sembrano meno inquieti, meno sperimentatori di nuove sonorità, ma più sicuri di sé, del proprio stile e della capacità di creare canzoni bellissime, perfette e senza tempo.
Come in un teorema hegeliano, il rock malinconico e straniato di OK Computer era la tesi,  le sperimentazioni sonore di Kid A/Amnesiac l’antitesi, Hail To The Thief un primo, imperfetto tentativo di sintesi e finalmente In Rainbows è la sintesi matura e coerente del lavoro dei Radiohead. No, non hanno rivoluzionato ancora una volta il rock, non hanno tentato nuove strade (anche se si sentono aleggiare generi nuovi per la band, come il soul in Reckoner, o il reggae in House of Cards), ma hanno portato a maturazione tutte le idee che fermentavano nei precedenti album. Certo, questo potrebbe essere capovolto come un guanto e diventare un difetto: ormai si sono adagiati sul loro sound, quelle idee se nei primi anni fremevano e bruciavano, qui se ne stanno placide come in un caminetto sotto vetro. Niente di tutto ciò: se ad un primo ascolto l’album appare bellissimo, sì, ma in pieno stile Radiohead,  è solo dai successivi ascolti che si scovano le sorprese, si intravede la laboriosa filigrana dietro la compattezza delle canzoni, si comprende che non si tratta di maniera, ma di complessa maturità.
I beat di Reckoner introducono il disco bruscamente, come uno schiaffo. Poi si inseriscono il cantato ondivago di Yorke e un tappeto più morbido di chitarre e synth a contrappuntare i beat con variazioni ritmiche. Un gran pezzo per chi ha amato Idioteque.
Una cavalcata di chitarre come non se ne sentivano da Electioneering apre Bodysnatchers. Poi, a metà (un classico nella nuova forma-canzone Radioheadiana) il tono cambia, diventando più straniato e inquietante. Nude è una grande vecchia idea e non cambia molto dalle precedenti versioni, se non per l’accompagnamento acustico della chitarra.
E’ il titolo a dare la cifra stilistica di Weird Fishes/Arpeggi: beat elettronici e un arpeggio di chitarra che accompagna la struggente, emozionante voce di Yorke fino alla fine di una canzona destinata a diventare un classico.
All I Need è una canzone d’amore (l’amore maturo e profondo di una coppia, non più quello sofferto e negato di Exit music, né tanto meno quello adolescenziale di tante canzonette pop). E’ costruita su tre semplici elementi: variazioni di un accordo di un basso vibrante e distorto, un tessuto sospeso di batteria e synth e la voce di Yorke al massimo dell’espressività.
Faust Arp è l’inattesa perla dell’album: forse la canzone più leggera e fresca dell’intero repertorio radiohediano, eseguita da Yorke in una forma di cantato-parlato già sperimentata in A Wolf At The Door. Canto ritmato, chitarre folk e la sapiente orchestrazione d’archi di Greenwood. Il tutto in minore, naturalmente. In Reckoner, irriconoscibile rispetto alle precedenti versioni, Yorke si sperimenta come soul singer. Bellissima la coda finale, col canto che sale come un lampo di luce in un cielo crepuscolare. Restando negli assaggi di nuovi generi, House of Cards si apre con una chitarra dal sapore reggae e prosegue con l’aspirazione a diventare una delle più belle ballate di sempre. Da brividi il canto finale di Yorke.
Niente nella trascinante e intensa penultima traccia (Jigsaw Falling Into Place) lascia presagire che il sogno stia per finire, perché apre ancora nuovi scenari, ci porta lontano, sembra quasi l’incipit di un nuovo meraviglioso disco. Sono sempre un po’ sorpresa e delusa quando sento arrivare, troppo presto, l’accordo funereo di Videotape, con quel suono continuo di sottofondo, come l’ultimo pezzo di un nastro che si riavvolge. E’ una canzone bellissima, ma per me significa solo: è finito l’album.
E’ un pezzo malinconico e disincantato, come di un uomo che si guarda indietro e fa il bilancio della sua vita, e guarda i vecchi ricordi sottoforma di un filmino delle vacanze, un disco comprato all’università, un oggetto un po’ kitch che ha conservato troppo a lungo perché doveva significare qualcosa, ma non ricorda più bene cosa.
E’ strano come una canzone così chiuda l’album meno “triste” dei Radiohead.

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