Rapporti di ricerca sulla vita sessuale delle formiche australiane e sugli ultimi avvistamenti di corridori onirici

sabato 20 ottobre 2007

Stardust di Matthew Vaughn.


Un muro separa il villaggio inglese di Wall dal regno fantastico di Stormhold. Non è molto alto e c’è anche una breccia piuttosto facile da attraversare, se si riesce ad eludere l’ottuagenario guardiano esperto di arti marziali. Tristan, un giovane garzone sognatore, per conquistare l’amata Victoria, promette di avventurarsi aldilà del muro e di portargli in dono una stella caduta.
Inizia così uno dei migliori film fantasy degli ultimi anni, che riprende la tradizione della fiaba cinematografica rocambolesca e ironica che fu dei classici della nostra infanzia: Legend, Lady Hawke e su tutti, La Storia Fantastica. Il tutto riverniciato con moderni effetti speciali e tanta computer grafica.
Il giudizio, tutto sommato positivo, si rimodula se si pensa che la buona qualità del film devo molto all’eccellente materiale da cui è tratto. Infatti, l’ironia del tono, l’arguta caratterizzazione dei personaggi, l’intelligenza della storia e tutto quel che differenzia questo film da tanta altra paccottiglia fantasy televisiva e cinematografica, che tutto fa tranne che stimolare la fantasia, era già nel libro omonimo di Neil Gaiman.
Se il film riesce ad esprimere le stesse qualità, può considerarsi dello stesso valore? Sì, se ci fermiamo all’ottima fattura dello script e della sceneggiatura. No, se guardiamo al linguaggio filmico, ovvero alla sintassi e allo stile del film.
Neil Gaiman nel suo Stardust riprende gli archetipi, i temi, i personaggi delle fiabe (le tre streghe che mangiano i cuori di innocenti fanciulle per ringiovanire, le lotte fra i pretendenti al trono, le tre prove da superare, gli aiutanti magici ecc.) per creare una fiaba classica in un linguaggio moderno e personalissimo. La forza del linguaggio di Gaiman sta nelle similitudini inattese e mai banali, nell’effetto ironico delle metafore e giochi retorici, nell’accostamento di archetipi e figure classiche a oggetti, miti e stili della modernità: così troviamo angeli caduti che ascoltano i Queen in macchina (Good Omens), antichi dei africani che amano partecipare al karaoke (American Gods), personificazioni della morte che vestono punk e hanno camerette tutte poster e orsacchiotti (Death). Anche quando tiene fuori gli oggetti della modernità, come in Stardust, lo stile di Gaiman resta riconoscibile.
E’ proprio quello che non accade nel film. Dopo aver fondato la sceneggiatura sulle solide basi del libro, il regista continua e prendere in prestito linguaggio e stile da altri film. Così vediamo ridondanti musiche in crescendo, riprese a volo d’angelo che scendono in picchiata nei palazzi, personaggi solitari in ampie e verdi vallate… direttamente dalla trilogia di Jackson de “Il Signore degli Anelli”. Il resto è pura accademia: giunzioni di montaggio che non aggiungono alcun senso alla storia, come quella delle rune (che significano quelle inquadrature? Che le rune vanno di moda a Stormhold?), un classico salsicciotto montato in modo un po’ ridondante e maldestro (mi riferisco alla sequenza sulla nave in cui Tristan impara a dar di scherma e la stella a danzare) e un discreto uso della computer grafica.
Insomma, se vedessi un altro film dello stesso regista, non credo che direi: toh, un film di Vaughn! Ed è un peccato che il progetto non sia stato affidato ad un regista in grado di usare in modo meno scolastico la sintassi filmica.

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