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domenica 23 gennaio 2011

Perché scrivi?

Qualche tempo fa, su repubblica, uscì un articolo sulle risposte date da otto scrittori alla domanda: perché scrivete?  Un mio fbf (facebookfriend) scrittore rigirò la domanda. Io, dopo aver pensato di liquidare la questione con un annichilimento delle sue implicazioni retoriche ("perché mi piace", "perché sì" "perché no?"), mi sono accorta di non sapere cosa rispondere. E questo mi disturbava. Beh, mi disturba anche non saper rispondere a un problema di fisica quantistica o alle domande su dio, l'universo e tutto quanto. Ma col tempo, me ne sono fatta una ragione. E la fisica quantistica passi. Non hai studiato. Ma non sapere la risposta a questa domanda è come andare male in educazione fisica (ehm... in realtà io avevo l'insufficienza in educazione fisica. Quindi, so di cosa parlo).
Insomma, dovevo trovare una risposta.
Era necessario andare alle radici del problema. Come in una seduta di alcolisti anonimi, mi sono fatta le classiche domande: quando hai cominciato? Perché continui a farlo?
Ho cominciato a sette anni. Mia zia mi aveva regalato il libro illustrato di Biancaneve. Avevo già letto altre favole e mia madre me ne aveva raccontate tante prima che imparassi a leggere. Le favole erano una droga. Ne volevo sempre di più e avevo messo a punto una serie di tecniche per non restare mai a secco: "un boccone in cambio di un paragrafo", "leggimi la sirenetta o butto il biberon nel water" e così via. Ero arrivata a ricattare persino mia nonna per ottenere una dose di Grimm o di Andersen. Per loro fu una vera liberazione quando imparai a leggere. E poi arrivò Biancaneve. La storia la conoscevo già. Avevo pure visto il cartone! Ma, con quel piccolo libro illustrato, per la prima volta, vidi il burattinaio e toccai i fili.
Il piacere che provavo (e che provo ancora) nell'ascoltare e poi nel leggere storie era troppo grande da contenere, dovevo condividerlo, dovevo restituirlo. Un po' come nel sesso: dare e ricevere piacere sono interdipendenti. Certo, quando avevo sette anni, non pensai esattamente questo.
Avevo appena scoperto che la mia droga non era naturale, ma poteva essere creata. Mi sentivo come doveva essersi sentito Albert Hoffman quando aveva deciso che da grande avrebbe fatto il chimico.
Ero turbata, vivevo emozioni intense e sconosciute (l'invidia della matrigna-mamma, tanto per dirne una) e, dopo aver compreso che quella storia l'aveva pensata e raccontata una persona, decisi che volevo provare anch'io a tenere i fili. Per il piacere di dare piacere. Allora non sapevo del sesso, ma ancora meno sapevo che nella scrittura non si nasce equipaggiati.
Cavoli se è difficile imparare a stimolare le zone erogene dei lettori! È vero che anche nel sesso la tecnica si perfeziona. Ma persino chi è alle prime armi all'orgasmo in qualche modo ci arriva. E magari ci fossero solo i lettori. C'è tutta l'infrastruttura. Questo argomento lo affronterò nel prossimo post: come trovare il punto G dell'industria editoriale.
Ora veniamo alla seconda domanda: perché continui a farlo?
Questa è più difficile. Sento che la spiegazione di prima non basta. Potrei anche rispondere: porco dinci, mi alleno da quando ero una tappetta di sette anni! Che faccio, secondo te? Mollo tutto?
E potrebbe anche bastare come risposta, no? No. Dati mancanti. Biiiip.
Poi ho pensato alla morte (eh, beh, ci penso spesso) e dopo aver superato, per istinto di sopravvivenza, il solito momento di paralisi totale (in cui è impossibile "pensare" davvero) mi sono detta: ok, e se... e se non dovessi morire, se potessi vivere per sempre? Il gioco dell'"e se" nel caso della morte ha degli ovvi limiti di logica, ma ho giocato lo stesso (anche perché prima o poi si deve passare alla fase dell'accettazione) e ho provato a rispondere con sincerità. Ecco, potrei continuare a fare tutto quel che faccio adesso e di più (non faccio l'elenco, si avvicina all'infinito). Potrei esplorare tutto l'universo, leggere tutti i libri. Che figata l'immortalità! E potrei scrivere... no, smetterei di scrivere. Dare e ricevere? Tiè. Non devo morire, posso permettermi di ricevere soltanto.
Un supersatellitericevitoreuniversaleinfinito.
Sono sicura: se non dovessi morire, non scriverei più una singola storia.
Quindi scrivo perché sono mortale.
Qui può sorgere un equivoco che ci tengo molto a chiarire.
Non scrivo per lasciare qualcosa di me. Nemmeno un figlio lo farei per questo motivo. Un figlio è una persona. Indipendente, unica. E un libro se ne va per conto suo, si trasforma e si moltiplica per ogni persona che lo legge. Non credo all'eternità dopo la morte e neppure ai suoi surrogati terreni.
Io la penso così: posso anche fare 10 figli e pubblicare 100 libri e piantare 1000 alberi, ma quando schiatto è finita. Di me non resta niente di niente. Una cosa ho imparato da Biancaneve: lascia che figli, alberi e libri siano belli senza di te e vivano la loro vita. Chiusa parentesi.
Quando ho pensato di smettere di scrivere (a causa dell'ipotetica immortalità) mi sono sentita terribilmente triste. E vuota.
La morte mi fa paura. Tantissimo. Ma, in qualche modo, l'eterna frigidità mi spaventa ancora di più.

Ora, rigiro qui la domanda. Vendicati pure con papirozzi più lunghi e sbrodolosi del mio o con geniali aforismi o con nuove forme narrative, la perchescrivetenarratologia non ha limiti. Let's go.

3 commenti:

  1. nel mio caso credo che abbia qualcosa a che fare con il bisogno di dire qualcosa, o forse dAre qualcosa, ed essere ascoltato. cosa che, ora come ora, non è che mi stia riuscendo così bene. però boh. forse è questo, o forse non ci ho mai pensato e farei bene a non chiedermelo nemmeno. a volte quando capisci come funzionano le cose non c'è più gusto ad usarle.

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  2. oh,
    io in primis perché non riesco a farne a meno
    poi perché mi sento una persona migliore
    terza, ma è un surplus non necessario
    per migliorare il mondo.
    è sempre stato così, solo la terza è arrivata dopo.
    Ciao biancaneve!

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  3. Ho risposto con un post direttamente :P

    http://ilmostroamato.blogspot.com/2011/01/perche-scrivete.html

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