L'ultimo film di Bellocchio mi ha fatto tornare in mente quello che il mio insegnante di storia del cinema chiamava "cinema di poesia". Brevi, potentissime immagini che non si presentano come tasselli funzionali di una trama, ma attraverso il nostro sguardo e il nostro vissuto si accendono di vita, fanno riprovare un'emozione dimenticata, un ricordo che credevamo perduto.
Si tratta della vita di una famiglia raccontata in sei episodi che vanno dal 1999 al 2008. Il passaggio del tempo è dato dalla crescita di Elena, che da bambina vediamo diventare adolescente e dalle partenze e ritorni della madre Sara, a Milano col sogno di una carriera nel teatro, e dello zio Giorgio, che con la sorella ha un difficile rapporto, anzi morboso, di amore e odio. Sempre presenti le due zie ottuagenarie, le sorelle del titolo, che non sono mai uscite dal paese, mai hanno lasciato la famiglia e le mura di casa (splendidamente riprese da Bellocchio in un chiaroscuro opprimente e caldo, al tempo stesso carcere e ventre materno).
Non apprezzo molto le storie intimiste, ma in questo film, anche se ci sta tutta la famiglia di Bellocchio, dalle zie ottuagenarie al figlio attore, anche se parla del suo paese natale, Bobbio, io ho rivissuto alcuni momenti della mia infanzia e certe sensazioni che provo quando torno a Matera e poi riparto, lasciando vecchie ferite, affetti sicuri e confortanti, fratelli e cugini che crescono senza di me, vite che avrei potuto vivere e da cui sono sempre scappata e che chissà, forse non erano così cattive. L'ho trovato un film poetico, struggente e vero; mi è piaciuto anche nelle piccole imperfezioni del suo sperimentalismo.
Alcuni girano interi film sulla pubertà e il passaggio all'adolescenza e non riescono a raccontare nulla di vero e significativo. A Bellocchio è bastata una breve sequenza. Nell'episodio precedente Elena era ancora una bambina che giocava con lo zio (e lui le diceva: basta con questi giochi, sei grossa, sei pesante adesso). E poi vediamo il ponte sul fiume che attraversa il paese affollato di ragazzini. Camera fissa, discreta, immagine sgranata. Elena cammina sorridente accanto a un tredicenne, mezzo bambino ancora. Ha la pelle abbronzata e dalla scollatura della canottiera estiva si intravedono i seni appena formati. Li vediamo arrivare in primo piano e uscire di campo, sorridenti di quell'allegria spavalda che si prova forse una sola volta nella vita.
Ora, ci sono anche un paio di cose che proprio non mi sono piaciute. L'episodio dell'insegnante distratta che, oltre al fatto che sta a pensione dalle sorelle Mai, non ha alcun legame con il resto del film. Alba Rohrwacher è una palla e recita sempre allo stesso modo. Potrebbe anche essere un intermezzo carino, in fondo, ma non ha alcun senso. La seconda cosa che non ho molto apprezzato è il finale. Conosco persone che per un finale sbagliato ripudiano tutto il film (o il libro). Per me ogni pagina di un libro, ogni fotogramma di un film o episodio di una serie ha pressappoco lo stesso peso. Conta il viaggio, non la meta. E questa gita di due ore sulle rive del Trebbia è stata piacevole e mi ha fatto ricordare belle cose.
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