Di ritorno da Berlino ho pensato: forse dovrei scriverne sul blog. I racconti di viaggio sono un'istituzione, anche se a nessuno interessa più sapere com'è fatto Kotbusser Tor o la porta di Brandeburgo nell'era multimediale e di google earth. Tuttavia questo è stato un viaggio speciale, una ricerca interiore, e Berlino appare sullo sfondo oppure come personaggio astratto - Berlino maestro di chiavi, Berlino-mistero, Berlino-guardiano del cancello che fa stupidi indovinelli, Berlino-amante che seduce e abbandona -. No, temo che un racconto di viaggio non sarebbe interessante. O, più precisamente, sono fatti miei.
Ho tenuto un diario, ma non posso attingervi, perché non descrivo mai la città e i miei vagabondaggi alla scoperta di club e monumenti. Ci sono pezzi del tipo "Sto qui a Potsdamer Platz e rifletto sul senso di questa mia ricerca..." oppure "Oggi sono stata al Banhof Zoo e sento che mi sto perdendo". Capite, sono registrazioni di un altro viaggio, come se avessi vagato in un mondo parallelo che si interseca continuamente con la città di Berlino. E non posso raccontarlo qui, su un blog pubblico.
Invece vorrei parlarvi di Dylan. Ho incontrato Dylan in uno degli appartamenti in cui sono stata ospitata, nel quartiere di Schöneberg. Dylan veniva da Varsavia - dove aveva insegnato inglese per un semetre, alloggiando in uno spartano studentato, con un bagno che era sempre "fuckin' cool!" - ma era originario di San Francisco. Non so altro di lui, tranne che era timido, gentile e generoso, che non aveva un orologio da polso, ma andava in giro con un orologio da tavolo inglese di legno dei primi del '900 stipato nello zaino, e quando qualcuno per strada gli chiedeva l'ora, Dylan apriva la cerniera del suo zainetto di cotone gonfio e liso e tirava fuori questo grosso, antiquato orologio da tavolo. So anche che era gentile e generoso, dicevo, ed ho ottime ragioni per affermarlo. La prima notte a Schöneberg la stanza degli ospiti era piuttosto affollata. Eravamo in nove a dormire in 16 mq scarsi di pavimento. Ed io ero l'unica senza sacco a pelo e senza materassino. Mi stavo rassegnando stoicamente ad avvolgermi nel mio cappotto e ad affrontare una notte scomoda e gelida, quando Dylan mi ha offerto il suo sacco a pelo. "Tanto io sono sotto il termosifone" ha detto. Un sacco a pelo magnifico, di quelli soffici e caldissimi in piuma adatti alle notti artiche. Grazie Dylan.
Il mattino seguente l'ho accompagnato in stazione. Al Banhof Zoo ci siamo separati. Io potevo comprare il biglietto anche lì e lui aveva il treno ad Hauptbahnhof, la stazione centrale.
Dylan ha tirato fuori il suo orologio da tavolo inglese in legno massiccio per controllare l'ora.
"Torni a Varsavia?" gli ho chiesto.
"No, a San Francisco."
"Non ti piace Varsavia?"
"Troppo triste. Troppo freddo" risponde con un mezzo sorriso. "E tu?"
"Non lo so. Speravo di trovare a Berlino un specie di rivelazione, di capire cosa fare, come vivere. Ma sono ancora più confusa. Ho anche pensato di venire a vivere qui. Non so, sono molto confusa."
"Anch'io." ha detto lui pensieroso. "Non so cosa farò adesso".
Ci siamo abbracciati. Poi Dylan è scomparso su per la scala mobile dell'U-bahn ed io mi sono messa in fila per il biglietto.
"E allora?" mi ha chiesto una persona quando gli ho raccontato questo episodio. Come se vi cercasse un senso, una morale, una fine. Non c'è.
Solo due anime che si incontrano al Banhof Zoo e si confessano il proprio smarrimento. E si separano (forse) per sempre.
Non so molto di Dylan. So che è timido, gentile e generoso. So che viaggia con un orologio da tavolo inglese dei primi del '900 nello zaino. So che è di San Francisco ed ha insegnato inglese per un semestre a Varsavia. Ma l'ha lasciata, perché è troppo triste e fredda. So che non sa cosa farà, che il futuro è una nube ingarbugliata e oscura, e i segni del passato sono infidi come i sogni, difficili da interpretare. So che Dylan è un'altra strada incrociata solo per un istante, che si perde lontano.
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